La combinazione di debiti pubblici e privati storicamente elevati, nella maggioranza delle economie sviluppate, costringerà i governi a perseguire una politica a supporto dell’inflazione che contribuirà a rendere quel debito più sostenibile – ma anche meno conveniente per chi l’ha comprato. Per questo i bond, contrariamente a quanto viene comunemente sostenuto oggi, sarebbero un cattivo affare. Russell Napier è uno storico dei mercati finanziari e presidente del Mid Wynd investment trust; il suo intervento ospitato dal Fee Only Summit 2023, l’evento della consulenza finanziaria indipendente, è un concentrato di posizioni a dir poco controcorrente.
Per i prossimi cinque anni, oltre a evitare i bond, andrebbero anche scartati i titoli azionari inclusi negli indici maggiori – per focalizzarsi su titoli apparentemente demodé come quelli dell’industria pesante. Immaginando uno scenario di inflazione elevata e di “repressione finanziaria”, l’oro sarebbe, poi, la scelta d’investimento giusta per proteggere il potere d’acquisto.
L’ipotesi della “repressione finanziaria”
Gli esempi storici che ispirano la visione di Napier sono tratti dal secondo dopoguerra, un contesto nel quale le economie occidentali cariche di debiti hanno obbligato gli investitori istituzionali ad acquistare titoli di Stato, il cui rendimento era sistematicamente più basso dell’inflazione. Un processo attraverso il quale il debitore, lo Stato, riesce di fatto a scaricare gradualmente le perdite sui creditori. La teoria di Napier è che Paesi come gli Stati Uniti e la Cina saranno fortemente incentivati ad affrontare il problema del debito stimolando la crescita del Pil nominale, che incorpora l’inflazione. A pagare il conto, dunque, sarebbero gli obbligazionisti che vedrebbero sfumato il rendimento reale (depurato dall’andamento dei prezzi) dei propri titoli.
Si tratta di una previsione in netto contrasto con le proiezioni macroeconomiche delle principali banche centrali, che proiettano un tasso d’inflazione in deciso calo rispetto ai livelli del 2023 nei prossimi anni. Le ultime stime della Fed stimano l’inflazione del 2024, 2025 e 2026 a, rispettivamente al 2,5%, 2,2% e 2%. Se tali proiezioni fossero corrette un Buono del Tesoro Usa a tre anni, che attualmente offre un rendimento lordo del 4,9%, sembrerebbe conveniente. Tuttavia, l’attendibilità delle previsioni, anche le più autorevoli, è stata assai sfidata negli ultimi due anni di inflazione largamente “imprevista”.
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La difficoltà di ripagare il debito con più crescita
Napier è convinto che le previsioni delle banche centrali saranno contrastate da politiche pro-inflazione da parte dei governi è la scarsità delle alternative praticabili per tenere il debito sotto controllo.
L’austerità, ossia l’accumulo di avanzi primari consistenti ottenuti dall’aumento di tasse e taglio di spese sembra “politicamente impraticabile. Dichiarare default produce danni all’economia troppo elevati. Aumentare la crescita reale sarebbe l’ipotesi più desiderabile, ma secondo Napier sarebbe “irrealistica”. Perseguire l’iperinflazione dettata da politiche monetarie espansive richiederebbe il controllo completo della banca centrale. Pertanto, in questa logica, la repressione finanziaria (forzare il possesso di bond che strutturalmente hanno rendimento negativo) sembra la via “politicamente meno pericolosa”, secondo Napier.
Si tratterebbe di recuperare modelli che attualmente appaiono superati dalla storia. Per stessa ammissione dello storico, l’Eurozona non è un’area in cui sarebbe possibile praticare la repressione finanziaria: “obbligare gli investitori istituzionali a comprare debito non è compatibile con la moneta unica”. Secondo Napier, quindi, ci sono le premesse per vedere sempre più spaccature fra i governi dell’Eurozona e la Banca centrale europea che, per mandato, contrasta un’inflazione al di sopra del 2%.
Emergenti: più sicuri di quello che sembra (ma non la Cina)
Un aspetto che distingue l’analisi di Napier è che il livello di debito considerato per l’analisi del rischio non è solo quello pubblico, ma anche il debito privato non relativo alle istituzioni finanziarie. Il debito pubblico/privato non finanziario sul Pil è particolarmente elevato in Giappone (417%), Francia (333%) e Cina (307%). In media, questa misurazione è più elevata nelle economie avanzate (269%) che non nei Paesi emergenti esclusa la Cina (154%). L’Italia sarebbe non distante dagli Usa, con debiti complessivi sul Pil rispettivamente del 246% e 254%.
Le crisi di debito pubblico, ha affermato lo storico, sono più spesso generate da fallimenti nel settore privato a tutela dei quali interviene poi la mano pubblica – che incamera improvvisamente nuovi debiti. Considerando questa misurazione, in modo piuttosto singolare, la Norvegia risulterebbe un mercato obbligazionario più rischioso di quello messicano, malese o indiano.

